Luigi Bagnolati nasce a Scortichino nel 1892 ed ivi risiede fino al 1908
quando si trasferisce con la sua famiglia di braccianti a Burana. A 18
anni diventa capolega di Burana e poi nel 1920 diventerà collocatore
alla Camera del lavoro di Bondeno.
Allo scoppio della prima guerra mondiale viene inviato al fronte, poi al
suo ritorno continua a fare il bracciante a Burana, nel fondo Ca' Verde.
Il suo impegno politico inizia nel Partito Socialista e quando, nel gennaio
1921 a Livorno nasce il Partito Comunista d'Italia, a seguito della scissione del Partito Socialista,
Bagnolati aderisce subito al nuovo partito di cui diventa segretario comunale a Bondeno e vice
segretario provinciale a Ferrara, nel mese di febbraio dello stesso anno.
Per il suo impegno politico a favore dei braccianti ed a sostegno delle loro lotte, fu spesso vittima di
violenze e di aggressioni; una volta i fascisti lo misero in un sacco, poi immerso a più riprese in un
macero, dopo averlo duramente bastonato.
Nel 1926 partecipa come delegato al terzo Congresso del PCd'I che si tenne a Lione perché in Italia,
con l'avvento del fascismo, i partiti erano entrati in clandestinità; nel 1927 fu arrestato a Milano e
condannato dal tribunale speciale a 15 anni di carcere.
Uscito dal carcere nel 1935 per 2 amnistie. Nel 1937 si trasferisce con la famiglia alla Cascina in
località Focomorto di Ferrara: una possessione di circa 70 ettari presa in affitto dal padre Giovanni
con la vincita di un premio di consolazione della lotteria di Tripoli. Qui riesce a prendere contatti
con i Compagni della Provincia di Ferrara e, con l'aiuto di Spero Ghedini, ad impiantare una piccola
tipografia con cui stampavano volantini, che poi venivano distribuiti da altri Compagni in tutta la
Provincia.
Nel frattempo aveva allacciato i rapporti con il centro del Partito a Parigi: tutti i mesi un corriere arrivava
con le notizie da divulgare, ma alla fine del 1937 il Partito lo chiama a Parigi perché riteneva
che se fosse rimasto in Italia sarebbe stato molto pericoloso per la sua vita.
Chiamò Spero Ghedini, lo informò di quanto stava accadendo e gli passo tutte le consegne politiche
compreso le apparecchiature della piccola tipografia.
In quel momento Bagnolati aveva la moglie, Manfredini Maria e un bambino di circa un anno. Organizzò,
con l'aiuto del Centro di Parigi, la sua fuga.
La moglie, con il figlio, aveva un documento falso, da cui risultava che andava a trovare il marito
emigrato per lavoro in Francia; mentre dai documenti di Bagnolati, risultava un commerciante che
andava in Francia per affari.
Nella corte della possessione ci abitava un pericoloso fascista, che lo teneva d'occhio sapendo chi
fosse (era ancora un sorvegliato speciale avendo ancora circa un anno da scontare), ma i Carabinieri,
trovandolo, sempre a casa ai controlli, non andavano più tutte le sere, ma facevano passare anche
una settimana. Così mise in giro la voce, facendo in modo che arrivasse soprattutto al fascista, che
doveva andare a Padova per far visitare il bambino da uno specialista.
A Padova, lo portò una sera suo fratello Emilio che, da mattacchione com'era, alcuni giorni dopo la
sua partenza mise in giro la voce che era sceso un piccolo aereo, là nel "vallone" una zona della
possessione, li aveva caricati e li aveva portati via.
Successe il putiferio, misero sottosopra la casa in cui viveva con i genitori ed i fratelli, schiodarono
tutti i pavimenti di legno per vedere se c'erano nascondigli.
Il risulta fu che il prefetto di Ferrara dovette dimettersi.
Il 25 aprile del '45 la liberazione dall'occupazione tedesca e la disfatta totale del fascismo riporta in
Italia la Democrazia.
Nasce il primo governo di Unità Popolare.
Bagnolati viene nominato Senatore della Repubblica, ma non trovandosi in Italia e non potendo rientrare
dall'esilio, perché il trattato di pace con la Francia non era ancora stato firmato, non potrà
occupare il suo posto al Senato. Verrà sostituito da un suo vecchio allievo, Otello Putinati di Ferrara.
Bagnolati riuscirà a rientrare in Italia clandestino alla fine del 1945 mentre la moglie e il figlio, ormai
decenne, rientreranno regolarmente in Italia nell'agosto del 1946.
Riprende la sua attività di dirigente politico nel movimento cooperativo diventando Presidente della
prima cooperativa di consumo di Ferrara. Dopo alcuni anni viene chiamato a ricoprire la carica di
Segretario della Confederterra. In questo ruolo istruirà più di 1000 vertenze contro gli agrari della
Provincia di Ferrara non perdendone una, tanto da venire soprannominato; "Il terrore degli agrari".
Un fatto avvenuto durante i famosi scioperi nelle campagne dei primi anni '50 rende merito alla sua
grande capacità di dirigente Sindacale: Lui ed altri tre dirigenti si stavano recando nelle zone del
basso ferrarese dove gli scioperi duravano da mesi, arrivati verso Migliarino, in un incrocio, l'automobile
ebbe un lieve incidente con un'altra vettura occupata da 5 uomini. Mentre stavano facendo i
rilievi del caso per l'assicurazione, Bagnolati si mise a parlare con gli occupanti dell'altra macchina,
alla domanda: "da dove venite?" questi risposero: "da Ravenna" al ché Bagnolati insisté chiedendo
loro: "e dove andate?" questi risposero: "andiamo a lavorare come braccianti in un'azienda dalle
parti di Codigoro"; Bagnolati continuo a porre loro delle domande, avendo intuito che erano dei
crumiri, su cosa gli avevano promesso come paga e tempi di lavoro. Dopodiché si presentò e disse
loro: "se il padrone non dovesse rispettare quanto vi ha promesso, venite da me che gli faremo causa".
Gli altri compagni di Bagnolati rimasero stupiti della risposta e gli chiesero: "ma come, sono
dei crumiri e tu ti offri di difenderli in caso il padrone non rispetti i patti verbali stabiliti? "Perché?",
disse Bagnolati: "non sono forse dei lavoratori anche loro!"
Nel 1963, a 70 anni, un infarto lo blocca per più di un mese in ospedale; ritornato a casa deve ridurre
tutti i suoi impegni politici e sindacali:
Va in pensione dalla Confederterra e riceve il compito dal Sindacato di scrivere: "Cronaca della attività
della Chiesa e dei Cattolici nella Provincia di Ferrara dal 1895 al 1927, (quattro volumi)".
"Cronaca dal 1897 al 1924 delle lotte politiche e sindacali dei lavoratori della Provincia di Ferrara,
(cinque volumi)". "Raccolta di documenti contrattuali e diversi di origine fascista della Provincia
di Ferrara (un volume)"; e dal Partito Comunista, di scrivere: "Origini della federazione Comunista
Ferrarese". Memorie e documenti. A cura dell'Istituto di Storia Contemporanea del movimento
Operaio e Contadino – Ferrara. Riccardo Franco Levi. Editore. Modena 1976.
Questo incarico lo terrà occupato per più di 10 anni. Si tratta di manoscritti, per tutto quanto non
siano documenti o tabelle.
Luigi Bagnolati muore a Bologna il 5 febbraio 1976, e non farà in tempo ad assistere alla presentazione
del libro avvenuta a Ferrara alla casa di "Stella dell'Assassino", la sera del terremoto in Friuli.
Erano presenti suo figlio Oscar e sua nipote Doretta.
Gli originali dei libri sono custoditi da suo figlio; le copie sono nelle maggiori biblioteche italiane.
Nel libro di memorie da lui scritto: "Origini della Federazione Comunista Ferrarese", e pubblicato
alla fine di gennaio del 1976, ripercorre l'esperienza politica di dirigente impegnato nella difesa e
nel riscatto dei lavoratori negli anni più duri del fascismo e del primo dopoguerra.
Vogliamo riportare qui alcuni brani tratti di quel libro autobiografico che ben rappresentano le condizioni
sociali, economiche e politiche di quel periodo.
"(...) Sono andato alle scuole elementari di Bondeno, a piedi, da Scortichino per quattro anni, facendo
otto chilometri al mattino all'andata ed altrettanti la sera al ritorno, con ai piedi gli zoccoli di legno
dismessi da mio padre e riempiti di fieno perché erano troppo larghi; mangiavo solo al mattino
un pezzo di polenta abbrustolita, meglio dire affumicata, perché mia madre la scaldava nel camino,
il cui fuoco veniva alimentato dalle erbe palustri che prendevamo lungo i canali, fatte seccare e poi
bruciate.
La mia famiglia non aveva i soldi per comprare il pane, perciò a scuola, quando gli altri ragazzi andavano
fuori a fare ricreazione, io restavo in aula a fare i compiti; allora si usciva dalla scuola alle
16 ed ora che arrivavo a Scortichino a piedi erano già le 18, il tempo di mangiare quel po' di minestra
che mia madre mi aveva preparato ed andavo a letto.
Mio padre, quando è andato militare, ha imparato a fare il barbiere, così quando è tornato a casa, oltre
che fare il bracciante faceva anche il barbiere, non in una bottega sua, ma in cucina: in quel tempo
a Burana non c'era il barbiere.
Quando sono andato militare ho fatto anch'io il barbiere e, tornato a casa, aiutavo il papà nel momento
in cui c'era molta gente, specialmente il sabato sera, così arrotondavo il salario di bracciante.
Allora, ai primi del '900, non tutti avevano diritto di voto, solo quelli che avevano il certificato di
terza classe (elementare) o essere censuari (cioè essere proprietari di qualche bene). Naturalmente le
donne non avevano comunque il diritto di voto.
Mio padre, Giovanni di fede socialista, e mio nonno Giuseppe divennero elettori perché frequentarono
i corsi serali, organizzati dal Comune, per raggiungere il diploma.
Mio padre è morto nel 1932, che io ero in carcere, mentre mia madre è morta alla fine del 1945 una
settimana prima del mio ritorno dall'esilio (…)".
Riportiamo inoltre due dei numerosi episodi, sempre tratti dal suo libro, che si riferiscono a Burana.
Burana: arresto dei comunisti
La notte del 2 maggio 1921 il piccolo paese di Burana, che aveva avuto già distrutte le sedi della
Lega e dei Circoli politici, aveva già subìto tre spedizioni punitive con circa sessanta lavoratori bastonati,
case invase dalla polizia, irregolari perquisizioni e violazioni di domicilio da parte dei fascisti
con selvagge bastonature, ancora una volta venne invaso dalla polizia che trasse in arresto 10 -
12 persone, tutti lavoratori e tutti comunisti.
Il pretesto: una inventata aggressione ad un fascista di Zerbinate, una sparatoria contro i fascisti di
Pontispagna, l'imputazione di avere incendiato durante l'inverno passato una mezza dozzina di fienili,
e l'aggressione, durante un comizio a Bondeno, all'Onorevole Merlin del Partito popolare italiano.
Gli arresti continuarono nei giorni seguenti fino a raggiungere la trentina.
Nell'occasione venne arrestato anche il giovane comunista Gilberto Neri di Bondeno, membro del
Comitato federale provinciale dei giovani comunisti. Circa la metà degli arrestati furono poi posti in
libertà provvisoria, mentre gli altri furono trattenuti in carcere fino in prossimità della mietitura. Solo
tre rimasero ancora in carcere: Giacomo Poletti falegname, Carlo Vincenzi ed Arrigo Gavioli
braccianti, tutti denunciati al Tribunale.
Il processo si svolse a Ferrara nella prima quindicina di dicembre del 1921, difensori gli avvocati
Mario Cavallari e Francesco Baraldi. A. Vincenzi e A. Poletti furono comminati sette anni e diciannove
giorni di carcere, a Gavioli sei anni.
I tre compagni ricorsero in appello e nella primavera del 1922 furono assolti. Fu un duro colpo per
la nostra organizzazione di partito che, oltre all'arresto di Giacomo Poletti, segretario del circolo
giovanile comunista di Burana, c'era stato l'arresto anche di compagni adulti e più fidati e qualificati
fra i quali Arrigo Gavioli, capo cellula di azione, che morirà poi ucciso come garibaldino e combat70
tente in Spagna contro il franchismo, Carlo Vincenzi e Giovanni Marchetti, fiduciari di gruppi di
compagni in aziende agricole, Giovanni Arrivabene, muratore fiduciario del gruppo comunista edile
e Daniele Vincenzi, capo cellula dei ferrovieri della linea Suzzara – Ferrara.
Burana: comunisti contro fascisti (dicembre 1924)
La testimonianza, di Luigi Bagnolati, volutamente inserita nel capitolo della "Resistenza a Burana"
anche se riporta fatti risalenti all'anno 1924 è sembrata appropriata per indicare quanto lontano dagli
anni Quaranta i buranesi abbiano avviato e portato avanti l'azione che si è conclusa il 25 aprile
1945.
Dice Bagnolati nel suo libro autobiografico "Origine della Federazione ferrarese del P.C.I." pubblicato
nel gennaio 1976:
"Dopo l'assassinio dell'on. Giacomo Matteotti, nel comune di Bondeno e nella frazione di Burana,
che i fascisti definivano "covo di comunisti", la reazione fascista aveva accentuato la sua attività.
Nonostante tutti i lavoratori fossero inquadrati nei sindacati fascisti, le bastonature, le violazioni di
domicilio di giorno e di notte, le intimidazioni e i ricatti erano all'ordine del giorno.
Nell'autunno avanzato i nostri informatori ci avevano avvertito che i fascisti locali stavano trainando
una grossa provocazione. I sintomi del fattaccio avevamo incominciato a registrarli già nel mese
di settembre. I compagni che frequentavano le osterie erano tutti controllati, quando mancavano una
sera, all'indomani venivano chiamati al direttorio, in sede, come allora si usava dire, davanti al tribunale
fascista, il quale voleva sapere dove e come avevano passato la sera in cui non si erano fatti
vedere all'osteria. Nella circostanza, se il convocato non produceva un alibi convincente, schiacciante,
con testimonianze attendibili, veniva selvaggiamente bastonato perché veniva imputato d'essere
stato ad una riunione di comunisti; volevano sapere dove la riunione era stata tenuta e chi aveva
partecipato. Comunque, anche quando l'incriminato poteva produrre un alibi ineccepibile, non se
la cavava senza passare sotto le forche caudine: i fascisti presenti si disponevano su due file, l'imputato
doveva passare in mezzo e riceveva una forte scarica di legnate.
Nel mese di dicembre gli informatori ci dettero due notizie importanti: la prima era che nell'azione
vi sarebbero stati solo fascisti di Burana e non tutti, ma circa una ventina dei più facinorosi, brutali e
selvaggi
La seconda notizia era che i fascisti ci avrebbero attaccati durante la settimana che precedeva le feste
natalizie perché dicevano che volevano far passare ai comunisti le feste natalizie sotto chiave, in
prigione. Stando così le cose, essendo al corrente dei piani del nemico, noi eravamo avvantaggiati.
Discutemmo a lungo il da farsi. Poi, sbagliando, la maggioranza fu d'accordo per la battaglia. Esclusi
i dirigenti per non decapitare il movimento, la adesione alla zuffa rimaneva volontaria.
Fu così che i comunisti prepararono un loro piano di difesa e di attacco. Il piano di attacco consisteva
in un certo numero di comunisti dislocati intorno al locale, dove altri comunisti si recavano regolarmente
tutte le sere, per poter intervenire in aiuto agli altri compagni, se fossero stati attaccati. Il
piano di difesa consisteva nell'essere armati di un corto bastone, tipo quello delle guardie comunali,
nascosto sotto la giacca, e di mezzi di difesa efficaci, bastoni più lunghi, sbarre di ferro, roncole, lasciati
fuori dal locale, ma facili da raggiungere e da impugnare per la difesa.
Dopo la prima quindicina di dicembre venimmo informati che l'attacco ci sarebbe stato all'antivigilia
o alla vigilia delle feste natalizie Noi organizzammo la difesa In quelle due sere solo tre o quattro
compagni dovevano recarsi all'osteria, mentre gli altri dovevano rimanere fuori nascosti per intervenire
nella mischia. Ci eravamo anche accordati che i nostri dovevano portare al braccio sinistro
una larga fascia bianca per potersi riconoscere al buio. Noi contavamo di cogliere colla sorpresa i
fascisti, quindi di avere la meglio perché avvantaggiati.
Così avvenne. L'antivigilia di Natale 1924 i fascisti, puntuali, alle ore 11 entrarono nell'osteria in
cinque o sei. I nostri compagni erano quattro, presenti c'erano altri quindici, venti lavoratori. I quattro
comunisti stavano giocando alle carte, apparentemente tranquilli; il capo dei fascisti, un certo
Cappi, guardia comunale, si avvicinò ai quattro comunisti, diede un gran colpo di bastone sulla tavola
dove i compagni stavano giocando, e con arroganza intimò: "fuori". Uno dei comunisti disse:
"lasciaci finire la partita", il fascista gli rifilò una bastonata, allora tutti quattro si alzarono ed usci71
rono dal locale di corsa, cercando d'essere colpiti il meno possibile dai fascisti che, fuori, davanti alla
porta, su due file, avevano formato le "forche caudine".
Prese le prime bastonate, i nostri quattro compagni uscendo di corsa impugnarono rapidamente il
corto bastone che portavano alla giacca e tirarono bastonate a destra e sinistra sui fascisti colpendoli
alle braccia. I fascisti fuori, davanti alla porta, erano tutti armati di pistola nella mano sinistra e di
bastoni nella mano destra. Alle prime bastonate ricevute sulle braccia, ad alcuni di loro cadde la pistola.
La repentina difesa dei comunisti, da loro non prevista, e la caduta a terra delle pistole, li disorientarono,
ebbero un attimo di indecisione: continuare l'attacco o battere in ritirata?
Non ebbero, però, il tempo sufficiente per prendere una decisione, perché entrarono in azione le
forze di riserva dei comunisti che, carichi d'odio e di rancore contro i fascisti, armati di bastoni rustici
della lunghezza di circa due metri, li investirono sui fianchi e li spinsero verso il ponte che si
trova proprio di fronte all'osteria sul canale di Burana. I fascisti dovevano attraversare per arrivare
alla loro sede che si trovava, appunto, duecento metri oltre il ponte.
A metà circa del ponte, però, si scontrarono collo sbarramento di un gruppo di lavoratori guidati da
un compagno comunista che bloccò i fascisti di fronte, scaricando loro addosso gragnuole di pugni
duri e pesanti di mani callose di braccianti. I fascisti si sentirono in gabbia presi fra due fuochi, martellati
di pugni e di colpi di bastone; qualcuno fra essi impugnava ancora la pistola, ma non ebbe il
tempo o il coraggio di usarla, ormai avevano perduto anche i manganelli, qualcuno era a terra, altri
cadevano, un solo fascista era ancora armato di bastone perché con una funicella l'aveva legato al
polso. Poi si sentì in lontananza il rumore di automobili e autocarri in arrivo. I comunisti diedero il
segnale di ritirata. A terra, carichi di botte, rimanevano sette o otto fascisti, alcuni, feriti, perdevano
sangue, quelli ancora in piedi aiutarono quelli a terra a rialzarsi, andarono in sede, i feriti furono caricati
su automobili e portati all'ospedale per le medicazioni, altri corsero dai carabinieri, telefonarono
alla Questura di Ferrara che, come sempre, corse con un nugolo di poliziotti in aiuto dei fascisti
che, una volta tanto, le avevano prese.
Due ore dopo la colluttazione il paese di Burana fu assediato da fascisti e poliziotti armati in assetto
di guerra: incominciarono la caccia all'uomo e le violazioni di domicilio. I fascisti furono trattenuti
all'ospedale di Bondeno per diciassette giorni, mentre i feriti più leggeri furono medicati e mandati
a casa: molti furono i contusi.
Come controparte si ebbero 32 lavoratori arrestati nella notte. Fra gli arrestati molti che si trovavano
a letto con la moglie e i figli30.
Avevamo ottenuto una vittoria sul piano della ribellione violenta, i fascisti erano stati battuti sul loro
proprio terreno; occorreva ora ottenere una vittoria anche sul piano giuridico e politico. Sul piano
giuridico dovevamo sostenere, imputati e testimoni, che noi ci eravamo limitati alla sola difesa personale
con le sole mani. Nelle molte case dei lavoratori, sottoposte a perquisizione nella stessa notte,
nessuna arma, di nessun genere, e nessun bastone fu trovato che potesse far sorgere il dubbio che
erano stati usati nella mischia. Vi erano dei fascisti feriti e contusi? Era vero. Però quelle ferite e
quelle ammaccature se le erano procurate loro stessi, bastonandosi a vicenda, non potendo, nel buio
della notte, distinguere chi erano i comunisti e chi erano i fascisti. L'unica preoccupazione dei comunisti
"quattro in tutto appena usciti dall'osteria" era stata quella di fuggire attraverso i campi il
più lontano possibile dalla mischia.
Sul piano politico lanciammo subito una grande campagna propagandistica per il soccorso rosso,
per la difesa clandestina degli arrestati, con risultati molto superiori al previsto ed insperati.
Potemmo così organizzare subito l'assistenza vittuaria ai carcerati, assistenza che consisteva in un
pasto giornaliero, quello del mezzogiorno. Mandammo a tutti gli arresati un piatto di minestra asciutta,
un secondo, un pane, un quarto di vino e due sigarette, durante tutto il periodo di carcere
preventivo scontato fino al processo. Il fatto aveva provocato entusiasmo e soddisfazione fra i lavoratori
dell'intero comune di Bondeno e fu di grande sostegno morale fra i carcerati.
Costituimmo subito un collegio di difesa il cui capo responsabile era l'on. Mario Cavallari. Al pro
cesso i nostri compagni non furono condannati. Scarcerati, si pose per loro il problema di poter continuare a vivere in paese.
La situazione era peggiorata i fascisti locali erano furibondi, sia per le bastonate, sia per l'assoluzione
concessa dal tribunale ai compagni comunisti. La reazione divenne anche più dura con la loro
presenza e la caccia al comunista più spietata. Tutti i nostri migliori attivisti processati furono costretti
a emigrare per avere salva la vita.
Avevamo avuto la vittoria nell'azione pratica violenta, ma una sconfitta politica, la perdita di fidati
compagni.
Le nostre previsioni, si erano avverate. Non bisognava accettare la provocazione Avevamo commesso
un errore"
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30. Furono arrestati: Antonio, Arrigo ed Elio Gavioli; Corina Poletti Gavioli; Dante Bagnolati; Secondo Vincenzi,
Paride e Ivo Poletti, Felice Manfredini, Ugo Palmieri, Giovanni Marchetti, Amedeo Giuseppe e Oreste
Galliera, Pietro Ghirardi, Antenore Ghedini, Giovanni Grazili, Antenore Magri; Orlandoni; Ettore, Augusto,
Giovanni e Umberto Pareschi; Celso Pasqualini; Antonio Schiavina; Sante e Tarquinio Tassi; Carlo Vincenzi;
Pietro Galliera, Giovanni Arrivabene; Nando Zoboli.